TRIBUNALE DI AGRIGENTO 
                          Sezione I penale 
 
    Il giudice dell'esecuzione, dott. Alessandro  Quattrocchi,  letti
gli atti del procedimento penale di esecuzione nei  confronti  di  P.
S. , nato a  il, condannato con sentenza del Tribunale  di  Agrigento
emessa in data 21 ottobre 2015 (confermata dalla Corte di appello  di
Palermo in data 31 marzo 2017, definitiva in data 14  febbraio  2018)
alla pena di mesi otto di reclusione ed euro 300,00 di multa  per  il
reato di cui agli articoli 110, 624-bis codice penale, perche',  come
da contestazione del P.M., in concorso con altro soggetto,  «al  fine
di trarne profitto, si introducevano nell'abitazione di M. S. sita in
e  s'impossessavano  di  un  televisore  marca  Philips  32  pollici,
sottraendolo allo stesso»; 
    letta l'istanza con cui il condannato,  personalmente,  chiedeva,
attraverso la procedura incidentale di esecuzione, ai sensi dell'art.
670  codice  di  procedura  penale,  la  sospensione  dell'ordine  di
esecuzione per la carcerazione emesso dal pubblico  ministero  presso
il Tribunale di Agrigento in data 10 marzo 2018 al fine  di  accedere
alle misure alternative alla detenzione  in  carcere  previste  dagli
articoli 47 e ss. della legge 26 luglio 1975, n. 354, atteso che,  in
uno all'ordine di esecuzione, il pubblico ministero non aveva  emesso
il decreto di sospensione ai sensi dell'art. 656, comma 5, codice  di
procedura penale; 
    sentite le parti in Camera di consiglio; 
 
                               Osserva 
 
    1. - Preliminarmente,  va  rilevato  che  la  disciplina  di  cui
all'art. 656, comma 9, codice di procedura  penale  elenca  tutte  le
fattispecie in relazione alle quali il pubblico ministero  e'  tenuto
ad emettere ordine di carcerazione, non potendo viceversa disporre la
contestuale sospensione dell'esecuzione ex art. 656, comma 5,  codice
di procedura penale, volta ad una preventiva valutazione da parte del
Tribunale di sorveglianza in ordine all'accessibilita' del condannato
alle misure alternative alla detenzione in carcere. 
    In  particolare,  le  ipotesi  tipizzate  alla  lettera  a)   del
succitato comma 9 dell'art. 656 codice di procedura penale rinvengono
la propria ratio  nella  scelta  legislativa  di  ritenere  (rectius,
presumere) la maggiore pericolosita' dei condannati per taluni  reati
(ex multis, Cassazione, Sez. 1, n. 16708 del 18 marzo 2008). 
    L'art. 656,  comma,  9,  lett  a),  codice  di  procedura  penale
originariamente prevedeva che non  potesse  sospendersi  l'ordine  di
carcerazione esclusivamente  «nei  confronti  dei  condannati  per  i
delitti dl cui all'art. 4-bis della legge 26 luglio  1975,  n.  354»,
vale a dire per quei reati che gia' nella normativa  sull'ordinamento
penitenziario sono gravati dal «divieto di concessione dei benefici».
Il che risponde ad una scelta di evidente  razionalita',  atteso  che
non soddisferebbe alcuna logica sospendere l'ordine  di  carcerazione
per coloro i quali non  hanno  in  nessun  caso  la  possibilita'  di
accedere a misure alternative alla detenzione carceraria. 
    Successivamente, l'art.  2,  lettera  m),  del  decreto-legge  23
maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24  luglio  2008,  n.  125  e
facente parte del c.d.  «pacchetto  sicurezza»,  varato  al  fine  di
«contrastare    fenomeni    di    illegalita'    diffusa    collegati
all'immigrazione illegale e alla criminalita' organizzata», ha esteso
tale elenco mediante l'aggiunta, nel summenzionato comma  9,  lettera
a), dell'art. 656 codice di procedura penale,  della  previsione  per
cui la sospensione non trova applicazione neppure per i  delitti  «di
cui  agli  articoli  423-bis,  624,  quando  ricorrono  due  o   piu'
circostanze tra quelle indicate dall'art.  625,  624-bis  del  codice
penale» («nonche' per i delitti in cui ricorre  l'aggravante  di  cui
all'art. 61, primo  comma,  numero  11-bis),  del  medesimo  codice»,
sebbene quest'ultima previsione sia stata dichiarata incostituzionale
in via conseguenziate con sentenza della Corte costituzionale n.  249
del 2010). 
    Da ultimo, con l'art, 1, comma 1, lett, b), n. 3, punto  a),  del
decreto-legge 1º luglio 2013, n.  78,  convertito  con  modificazioni
nella legge 21 febbraio 2013, n. 94, alla  lettera  a)  del  comma  9
dell'art.  656  codice  di  procedura  penale  sono  state  apportate
ulteriori modificazioni, eliminando dall'elenco  dei  reati  che  non
ammettono  sospensione   dell'ordine   di   carcerazione   il   furto
pluriaggravato e introducendo i  reati  di  cui  agli  articoli  572,
secondo comma, e 612-bis, terzo comma, codice penale. 
    Per tale gruppo di reati, dunque, la sospensione dell'esecuzione,
prevista all'art.  656,  comma  5,  codice  di  procedura  penale per
l'esecuzione di pene detentive -  anche  se  costituenti  residuo  di
maggiore pena - non superiori a tre anni (quattro anni, alla  stregua
della sentenza della Corte costituzionale, n. 41 del 2018), non  puo'
essere disposta; anche se non e' stata modificata la  disciplina  che
consente al Tribunale di sorveglianza  di  valutare  senza  ulteriori
limiti la possibilita' di concedere - a  posteriori  -  delle  misure
alternative al condannato  gia'  detenuto,  non  essendovi  stato  un
allineamento del disposto dell'art. 656, comma 9, codice di procedura
penale  con   quello   di   cui   all'art.   4-bis   dell'ordinamento
penitenziario. 
    Ne consegue che, per effetto della  vigente  normativa,  la  pena
comminata agli autori dei reati  indicati  dall'art.  656,  comma  9,
lettera a), codice di procedura penale deve essere ab origine espiata
in regime  di  detenzione  carceraria,  non  essendo  consentita  una
preventiva valutazione,  da  parte  del  Tribunale  di  sorveglianza,
precedente all'ingresso  in  carcere  del  condannato,  relativamente
all'applicazione di misure alternative alla detenzione carceraria. 
    E cio' anche - come nel caso di specie - in relazione al reato di
furto in abitazione ex art. 624-bis codice di procedura  penale,  che
l'ordinamento considera,  con  una  presunzione  iuris  et  de  iure,
espressivo di una maggiore capacita' a  delinquere  del  suo  autore,
come  tale  non  meritevole  ex  ante  dei  benefici  previsti  dalla
normativa sull'ordinamento penitenziario. 
    2. - Tanto premesso, va in primo luogo affermata la competenza di
questo   giudice   a   promuovere   il   giudizio   di   legittimita'
costituzionale. 
    Sotto   il   profilo   procedurale,   competente   a    conoscere
dell'esecuzione  della  sentenza  sopra  indicata   e'   il   giudice
dell'esecuzione del Tribunale di Agrigento che  l'ha  deliberata,  ai
sensi dell'art. 665, comma 1 e 2, codice di procedura penale, essendo
stato il provvedimento, ancorche' impugnato, confermato  in  sede  di
appello  e  divenuto  irrevocabile  a  seguito  della  pronuncia   di
inammissibilita' del proposto ricorso in Cassazione. 
    Si  deve  escludere  una  competenza  sul  titolo  esecutivo  del
Tribunale di sorveglianza, che e' invece  competente  a  valutare  la
concepibilita' di misure alternative, nonche' del pubblico ministero,
che in questa fase e' organo con funzioni esecutive e  amministrative
e i cui provvedimenti, per  l'effetto,  sono  sottratti  a  qualsiasi
mezzo impugnatorio. 
    E invero,  al  fine  di  evitare  il  verificarsi  di  situazioni
pregiudizievoli per il condannato, l'ordine di esecuzione puo' essere
sottoposto al controllo del giudice  dell'esecuzione,  il  quale,  se
richiesto dalla parte interessata, dovra' pronunciarsi, osservando le
garanzie giurisdizionali proprie del procedimento previsto  dall'art.
666  codice  di  procedura  penale,  con  ordinanza  ricorribile  per
Cassazione. 
    In questi termini la pacifica giurisprudenza della Suprema Corte,
alla  cui  stregua  «L'ordine  di  esecuzione,  emesso  dal  pubblico
ministero senza il contestuale provvedimento di sospensione per  pene
detentive   brevi,   non   puo'   essere   annullato   dal    giudice
dell'esecuzione   ma   esclusivamente   dichiarato    temporaneamente
inefficace, per consentire al condannato di presentare,  nel  termine
di  trenta  giorni,  la  richiesta  di  concessione  di  una   misura
alternativa alla detenzione» (cfr., da ultimo, Cass., n. 41592 del 13
ottobre 2009, n. 41592). 
    3. - In merito al giudizio  costituzionalita'  ex  art.  1  della
legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, l'art. 23 della legge  11
marzo  1953,  n.  86  prevede  che  la  questione   di   legittimita'
costituzionale  possa  essere  sollevata  con  ordinanza,  anche   di
ufficio, dall'autorita' giurisdizionale davanti alla quale  verte  il
giudizio, dopo aver valutato la rilevanza  della  questione  rispetto
alla decisione della causa e la sua non manifesta infondatezza;  tale
duplice valutazione e' di competenza  dell'autorita'  giurisdizionale
chiamata a pronunciarsi sulla causa, trattandosi di  valutazione  che
implica un giudizio sui termini e limiti della  controversia  nonche'
sulla applicazione della norma nel caso concreto. 
    Ebbene, il giudicante ritiene che la  questione  di  legittimita'
costituzionale  per  contrasto  con  gli  articoli  3  e   27   della
Costituzione dell'art. 656, comma 9, lettera a), nella parte  in  cui
non consente  la  sospensione  dell'esecuzione  nei  confronti  delle
persone condannate per  il  delitto  di  furto  in  abitazione  (art.
624-bis codice penale) sia  di  primaria  rilevanza  nell'ambito  del
presente procedimento (non potendo essere definito  indipendentemente
dalla risoluzione  della  questione  di  legittimita'  costituzionale
medesima) e non manifestamente infondata. 
    4.  -  Quanto  alla  rilevanza  della  prospettata  questione  di
legittimita' costituzionale, il giudice osserva di essere chiamato ad
esercitare una effettiva e  attuale  potestas  decidendi  proprio  in
relazione  alla  disposizione  sospettata   di   incostituzionalita',
venendo  la  stessa  in  rilevo  nell'ambito  del   procedimento   di
esecuzione  instaurato  dall'istante  per  ottenere  la   sospensione
dell'ordine di esecuzione  della  carcerazione  emesso  dal  pubblico
ministero al fine di accedere alla richiesta di pena alternativa. 
    Ove la questione non fosse prospettata, infatti,  questo  giudice
dovrebbe respingere  l'istanza  formulata,  atteso  che  il  disposto
normativo di cui  all'art.  656,  comma  9,  lettera  a),  codice  di
procedura   penale    non    lascia    adito    ad    interpretazioni
costituzionalmente  o   convenzionalmente   orientate   che   possano
permettere  di  accogliere  la   richiesta   formulata   ne'   appare
suscettibile di disapplicazione. 
    Infatti, stante la tassativita' della elencazione contenuta nella
disposizione tacciata di incostituzionalita', non  risulta  possibile
addivenire ad una interpretazione diversa, essendo stato inserito  il
reato di furto in abitazione di cui all'art.  624-bis  codice  penale
nell'elenco  di   quelli   ostativi   alla   preventiva   sospensione
dell'ordine di esecuzione carceraria ex art. 656, comma 5, codice  di
procedura penale. 
    5. - E' parimenti evidente la non  manifesta  infondatezza  della
questione. 
    Il disposto dell'art.  656,  comma  9,  lettera  a),  cosi'  come
formulato nella parte in cui richiama il furto in abitazione  di  cui
all'art. 624-bis codice penale, viola  l'art.  3  della  Costituzione
essendo in contrasto con i principi di ragionevolezza, uguaglianza  e
proporzionalita'. 
    In via preliminare va ricordato che l'art. 4-bis dell'ordinamento
penitenziario, rubricato  «divieto  di  concessione  dei  benefici  e
accertamento della pericolosita' sociale dei  condannati  per  taluni
delitti»,  elenca  quei  reati  (c.d.   ostativi)   considerati   dal
legislatore espressione di una particolare capacita' a  delinquere  e
ritenuti di tale gravita' da far presumere - in  via  assoluta  -  la
pericolosita' sociale di chi li  ha  commessi.  Tra  questi,  a  mero
titolo esemplificativo e senza pretese di esaustivita', si ricordano:
il delitto di cui all'art. 416-bis codice penale, i delitti aggravati
dall'art. 7 legge 18 luglio 1991, n.  203,  i  delitti  di  cui  agli
articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies codice penale. 
    L'art. 656, comma 9, lettera a), codice di procedura  penale,  in
maniera parzialmente complementare, elenca i reati per i quali non e'
ammessa sospensione dell'ordine di carcerazione, rinviando  in  primo
luogo a quelli di cui all'art. 4-bis o.p. summenzionato: non  avrebbe
infatti senso sospendere l'esecuzione della pena  detentiva  per  chi
sia stato condannato per reati che non ammettono  misure  alternative
alla detenzione carceraria medesima. 
    Lo stesso art. 656, comma 9,  lettera  a),  codice  di  procedura
penale, nondimeno, impedisce la preventiva sospensione dell'ordine di
carcerazione per un ulteriore  novero  di  reati,  i  cui  condannati
possono richiedere misure alternative alla detenzione  solo  a  valle
dell'ingresso nell'istituto di pena. 
    Come visto, alla luce della precedentemente rassegnata evoluzione
normativa, tali reati sono quelli previsti  dagli  articoli  423-bis,
572, comma 2, 612-bis, comma 3, e 624-bis codice penale sub specie di
furto in abitazione. 
    Si evidenzia che in nessuna delle due elencazioni figurano ne' la
rapina, ne' l'estorsione (nella loro versione non aggravata), ne'  il
furto pluriaggravato (a seguito del ripensamento legislativo con  sua
espunzione dall'elenco di cui all'art.  656,  comma  9,  lettera  a),
codice di procedura penale), ne' il  furto  con  strappo  di  cui  al
secondo comma  dell'art.  624-bis  codice  penale  (a  seguito  della
declaratoria di incostituzionalita' avvenuta con  la  sentenza  della
Corte costituzionale n. 125 del 6 aprile 2016). 
    Non puo' allora farsi a meno  di  denunciare,  sotto  il  profilo
dell'irragionevolezza della disposizione, come il furto in abitazione
presenti elementi, da un lato comuni, dall'altro meno gravi,  con  le
altre fattispecie incriminatrici che ammettono la sospensione ex art.
656, comma 5, codice di procedura penale, tali da rendere  del  tutto
irrazionale la sua permanenza nell'elenco dei reati che  ostano  alla
preventiva sospensione dell'ordine di carcerazione per consentire  al
condannato di accedere alle misure alternative alla detenzione di cui
all'agli articoli 47 e ss. o.p., che del resto non gli sono  comunque
precluse a posteriori. 
    In primo luogo, furto in abitazione, furto con  strappo  e  furto
pluriaggravato hanno quale comune denominatore la condotta costituita
dall'impossessamento del bene mobile altrui con sottrazione a chi  lo
detiene, ancorche' circostanziato da ulteriori elementi rilevanti  ai
fini della qualificazione giuridica e della pena  da  irrogare  e  in
particolare: la commissione del furto nei luoghi destinati in tutto o
in parte a privata dimora (secondo i confini concettuali tratteggiati
da Cassazione  pen.,  Sez.  U,  n.  31345  del  23  marzo  2017);  la
commissione del furto con violenza immediatamente  rivolta  verso  la
cosa e che, solo indirettamente, si riverbera sulla  persona  che  la
detiene; la commissione del furto con due  o  piu'  delle  aggravanti
descritte dall'art. 625 codice penale. 
    In secondo luogo, il furto in abitazione risulta  per  molteplici
versi meno grave dei reati di rapina e  di  estorsione,  anche  nelle
loro forme di manifestazione non aggravate. Il furto  in  abitazione,
infatti, tutela tanto il patrimonio quanto  il  privato  domicilio  -
inteso  come  proiezione  spaziale  della  liberta'  personale  della
persona - e, pur essendo tale tipo di  condotta  sintomatica  di  una
maggiore  audacia   e   pericolosita'   dell'agente   rispetto   alla
fattispecie  di  furto  semplice,  non  si  realizza  con   modalita'
direttamente lesive dell'incolumita' della persona stessa o della sua
liberta' morale, essendo indifferente ai fini della  consumazione  la
presenza o meno del soggetto passivo nell'abitazione al momento della
condotta attiva. 
    Diversamente, la rapina, quale paradigmatico  esempio  di  «reato
plurioffensivo», ricomprende  nella  propria  oggettivita'  giuridica
tanto l'elemento patrimoniale, quanto la tutela della liberta' morale
del soggetto passivo, postulando,  quale  modalita'  vincolata  della
propria realizzazione, la violenza o la minaccia direttamente rivolta
al soggetto passivo  del  reato;  parimenti  dicasi  dell'estorsione,
reato   lesivo   sia   del   patrimonio   sia   della   liberta'   di
autodeterminazione della persona,  anch'esso  tipicamente  perpetrato
con condotta violenta o minacciosa. 
    Tali   considerazioni   trovano   riscontro    nel    trattamento
sanzionatorio tratteggiato dal legislatore  in  termini  gradualmente
crescenti: parificato tra furto in abitazione  e  furto  con  strappo
(reclusione da tre a sei anni), aumentato nel massimo  per  il  furto
pluriaggravato  (reclusione  da  tre  a  dieci  anni),  ulteriormente
aggravato, anche nel minimo, per la rapina (reclusione da  quattro  a
dieci anni) e per l'estorsione (reclusione da cinque a dieci anni). 
    Posto che la ratio dell'autonoma (e piu' intensa)  tutela  penale
prevista per il furto in abitazione e' proprio  la  protezione  della
sicurezza  fisica  della  vittima  che  possa  trovarsi   all'interno
dell'abitazione al momento del fatto, la  cui  naturale  progressione
nell'iter criminis e' rappresentata dal piu' grave delitto di  rapina
(propria o impropria), risulta paradossale la scelta  legislativa  di
prevedere una modalita' esecutiva piu' gravosa per il condannato  per
l'art. 624-bis codice penale rispetto a quella prevista per tutte  le
altre fattispecie incriminatrici summenzionate e, in particolar modo,
per la rapina stessa. 
    Come osservato dalla stessa Corte  costituzionale  nella  recente
pronuncia n. 125 del 2016, che  ha  dichiarato  l'incostituzionalita'
del divieto di sospensione dell'ordine di carcerazione  in  relazione
al furto con strappo di cui allo stesso art. 624-bis  codice  penale,
«non sono rari i casi in cui, nel progredire dell'azione  delittuosa,
il furto con strappo si trasforma in una rapina, per la necessita' di
vincere la resistenza della vittima, o anche in una rapina impropria,
per la necessita' di contrastare la reazione della  vittima  dopo  la
sottrazione della cosa». 
    A parere di questo giudicante, tale constatazione, per le ragioni
suesposte, e' perfettamente estendibile al furto in  abitazione,  non
casualmente punito dalla medesima disposizione che incrimina il furto
con strappo: anche tra furto in abitazione e rapina sussiste  infatti
una astratta progressione nell'offesa, in quanto la lesione posta  in
essere dal soggetto attivo del furto e'  suscettibile  di  estendersi
dal patrimonio alla persona, ove presente nell'abitazione al  momento
della  condotta  attiva,  giungendo  a  metterne  in  pericolo  anche
l'integrita' fisica. 
    Vero e' che l'art. 656, comma 9, lettera a), codice di  procedura
penale, laddove pone il  divieto  della  sospensione  dell'esecuzione
prevista  dal  comma  5  dello  stesso  articolo,  si  fonda  su  una
«presunzione di pericolosita' che concerne i condannati per i delitti
compresi nel catalogo» indicato  in  tale  lettera  (ordinanza  della
Corte costituzionale, n. 166 del 2010). 
    Tuttavia, gli indici di pericolosita' ravvisabili  nel  furto  in
abitazione si rinvengono, incrementati, anche nella rapina. 
    E' dunque incongrua la vigente disciplina che, pur prevedendo per
la rapina una pena assai piu' grave, riconosce a chi ne e' autore  un
trattamento piu' vantaggioso in sede di esecuzione della pena;  e  la
disparita'  di  trattamento  tanto  meno   si   giustifica   per   le
caratteristiche dei  due  reati,  che  non  consentono  di  assegnare
all'autore di un furto in abitazione una  pericolosita'  maggiore  di
quella riscontrabile  nell'autore  di  una  rapina  attuata  mediante
violenza alla persona. 
    6. - L'irrazionalita'  della  disposizione  emerge  non  solo  in
ragione del trattamento sanzionatorio, che, come visto,  permette  di
irrogare una pena, nel minimo e nel massimo, piu' alta per reati  che
non sono tuttavia ostativi alla sospensione ex  art.  656,  comma  5,
codice di procedura penale,  ma  altresi'  per  il  fatto  che  viene
considerato  pericoloso  -   e   dunque   meritevole   di   immediata
carcerazione - anche chi astrattamente abbia  commesso  un  reato  di
modesta gravita' e abbia riportato condanna  ad  una  pena  detentiva
breve (come nel giudizio a quo), a differenza del soggetto  il  quale
si sia reso responsabile di un reato piu' grave e percio'  sia  stato
condannato ad una pena detentiva elevata, tenuto conto che il  limite
di tre anni (rectius, quattro anni), previsto dall'art. 656, comma 5,
codice di procedura penale ai fini della sospensione  dell'esecuzione
trova applicazione anche con riguardo alle pene residue. 
    La  norma  censurata  ha  quindi  introdotto   una   aprioristica
presunzione di  pericolosita',  oltrepassando  il  limite  della  non
manifesta irragionevolezza delle scelte legislative (sul  punto,  sia
consentito il rinvio alle sentenze della Corte costituzionale n.  148
del 2008 e n.  206  del  2006);  presunzione  di  cui  si  rileva  lo
stridente   contrasto   con   il    principio    costituzionale    di
ragionevolezza. 
    Infatti,  l'indiscussa  discrezionalita'  del  legislatore  nella
scelta relativa alle modalita' di esecuzione della pena in  relazione
ai diversi titoli di reato non puo' trasmodare  nel  totale  arbitrio
dello  stesso,  come  giustamente  ribadito  dalla   medesima   Corte
costituzionale laddove ha reputato «ammissibile l'esistenza di regimi
sanzionatori  differenziati,  frutto  di  scelte  discrezionali   del
legislatore, a condizione che  queste  ultime  non  trasmodino  nella
manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio» (cfr. sentenze n. 394 del
2006, n. 144 del 2005, n. 364 del 2004 e n. 287 del 2001). 
    7. - Il disposto normativo censurato, a  parere  del  giudicante,
viola altresi' l'art. 27, comma 3, della Costituzione, che impone che
la  pena  debba  tendere  alla  rieducazione  del  condannato:   tale
finalita', pur non potendo essere limitata alla sola fase  esecutiva,
certamente trova in tale momento l'ambito di  massima  realizzazione,
che  non  puo'  quindi  essere  circoscritto  al   solo   trattamento
penitenziario (si rinvia, al  riguardo,  alle  pronunce  della  Corte
costituzionale n. 12 del 1966; n. 21 del 1971; n. 167 del  1973;  nn.
143 e 264 del 1974; n. 119 del 1975; n. 25 del 1979; n. 104 del 1982;
n. 137 del 1983; n. 237 del 1984; nn. 23, 102 e 169 del 1985; n. 1023
del 1988) e che, di fatto, viene frustrata da un  sistema  automatico
di carcerazione immediata. 
    L'applicazione,   rigida   ed   automatica,   della    detenzione
carceraria,  senza  possibilita'  di  una  valutazione  -   anteriore
all'ingresso nell'istituto di pena del  condannato  -  da  parte  del
Tribunale  di  sorveglianza  circa  l'idoneita'  ed  opportunita'  di
eventuali misure alternative alla detenzione,  risulta  in  contrasto
con il finalismo rieducativo  della  pena,  in  forza  del  quale  e'
senz'altro prevalente l'esigenza di garantire il recupero sociale del
condannato, attraverso la valorizzazione  delle  sue  caratteristiche
individuali. 
    Il costante orientamento espresso dalla Corte  costituzionale  in
tale ambito esclude, nella materia dei benefici penitenziari,  rigidi
automatismi e postula, invece, una valutazione  individualizzata  del
prevenuto, cosi da fondare la concessione o meno del beneficio  sulla
sua attitudine a porre il condannato  sulla  via  dell'emenda  e  del
reinserimento sociale (ex multis, Corte  costituzionale  n.  189  del
2010, n. 255 del 2006, n. 436 del 1999). 
    Sul punto, inoltre, non appare superfluo ricordare che  la  Corte
costituzionale si e' gia' pronunciata nel senso che  «le  presunzioni
assolute,  specie  quando  limitano  un  diritto  fondamentale  della
persona, violano il principio di eguaglianza, se  sono  arbitrarie  e
irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono   a   dati   di   esperienza
generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod   plerunque
accidit» (v. sentenza n. 265 del 2010). 
    Segnatamente, «l'irragionevolezza della presunzione  assoluta  si
puo' cogliere tutte le volte in cui sia «agevole»  formulare  ipotesi
di accadimenti reali contrari  alla  generalizzazione  posta  a  base
della presunzione stessa» (sentenza n. 139 del 2010,  in  conformita'
alla sentenza n. 41 del 1999). 
    Proprio con riferimento alla  presunzione  di  pericolosita',  la
Corte costituzionale ha affermato che la stessa, pur  ammissibile  in
seno  all'ordinamento,   diviene   costituzionalmente   incompatibile
laddove «non abbia fondamento nell'id quod plerunque  accidit»  (gia'
sentenza n. 139 del 1982). 
    Orbene,  nel   caso   di   specie,   l'aprioristica   preclusione
dell'accesso alle misure alternative alla detenzione per l'espiazione
di una pena breve - nel giudizio a quo, otto  mesi  di  reclusione  -
conseguente alla commissione del reato di  furto  in  abitazione  non
trova  ragion  d'essere  nel  sistema  ordinamentale  alla  luce  dei
principi costituzionali sopra ricordati. 
    Le misure alternative alla detenzione si ricollegano all'esigenza
di individualizzazione della pena in fase esecutiva, in rapporto alla
quale la valutazione di pericolosita' sociale  del  condannato  -  da
condursi caso per caso, e non sulla base  di  arbitrarie  presunzioni
assolute - viene, per converso, in primario rilievo. 
    Nell'ordinamento  italiano,  come  gia'  in  precedenza  evocato,
l'ingresso in carcere dei soggetti condannati a pene detentive brevi,
potenzialmente in condizione di usufruire  delle  misure  alternative
alla detenzione, e' sospeso ab origine in ragione di una  presunzione
di scarsa pericolosita'  sociale  sulla  base  dell'entita'  di  pena
irrogata; simmetricamente, i divieti alla sospensione dell'esecuzione
previsti dall'art. 656, comma 9, codice  di  procedura  penale,  sono
fondati sulla presunzione di pericolosita' in relazione al titolo del
reato, alla gravita' della sanzione edittale o al particolare allarme
sociale destato da  talune  condotte  criminose,  cui  si  affiancano
condizioni d'accertata pericolosita'. 
    In  questa   prospettiva,   il   meccanismo   della   sospensione
dell'esecuzione delle  pene  detentive  brevi  trova  giustificazione
proprio nel  finalismo  rieducativo  della  pena,  essendo  volto  ad
evitare  l'impatto  con  la  struttura  carceraria  di  chi   sarebbe
destinato a restarvi brevemente, ed  a  favorire,  in  tal  modo,  la
riabilitazione del condannato che venga poi  ammesso  ad  espiare  la
stessa pena in regime alternativo alla detenzione. 
    La disposizione censurata, laddove ha esteso le  ipotesi  in  cui
non e' concessa la  sospensione  dell'ordine  di  carcerazione  oltre
quelle  in  cui  non  e'  ammessa  alcuna  misura  alternativa   alla
detenzione ex art. 4-bis o.p., ha quindi introdotto una  aprioristica
presunzione  di  pericolosita'  del  tutto  eccentrica  nel   sistema
dell'esecuzione  delle  pene   detentive   brevi,   con   conseguenze
paradossali sul piano della coerenza del sistema, in contrasto con  i
principi di uguaglianza, sub specie  di  ragionevolezza,  nonche'  di
finalita' rieducativa della pena. 
    8.  -  Pur  senza  affiancare  ai   parametri   «interni»   della
prospettata questione di legittimita'  costituzionale,  rappresentati
dai citati articoli 3 e 27 della  Costituzione,  quello  «interposto»
costituito dalla Convenzione europea dei diritti  dell'uomo,  risulta
comunque  opportuno  evidenziare  che  la   presente   eccezione   di
incostituzionalita' trae forza anche  nell'ordinamento  convenzionale
e, segnatamente, nell'interpretazione della Convenzione  europea  per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali
fornita  dalla  giurisprudenza  della  Corte  europea   dei   diritti
dell'uomo. 
    In  questa  prospettiva  devono  essere  ricordate  le   sentenze
sentenza  Sulejmanovic  contro  Italia  del  2009   e   la   sentenza
Torreggiani contro Italia  del  2013,  che  non  solo  hanno  imposto
all'ordinamento    italiano    l'obbligo    del    superamento    del
sovraffollamento degli istituti penitenziari, ma altresi'  il  dovere
di  rimodulare  l'esecuzione  della  pena  in  carcere   in   termini
congruenti a tutti i parametri integranti  l'osservanza  dell'art.  3
CEDU, anche con forme rimediali preventive. 
    I criteri di riforma dell'ordinamento penitenziario  dettati  dal
comma 85 dell'articolo 1 della  legge  di  delega  n.  103  del  2017
costituiscono l'adempimento di tale obbligo, inveratosi in un disegno
riformatore che ambisce ad andare al cuore della funzione della  pena
per  valorizzarne  le  potenzialita'  di  recupero   sociale,   anche
attraverso    una    necessaria     progressivita'     trattamentale:
progressivita' orientata alla rinuncia dell'opzione «carcerocentrica»
in favore di una piu' coraggiosa scelta di recupero del reo  mediante
articolate misure alternative sulla scorta del dettato costituzionale
(art. 27, comma 3, Cost.), che  allude  significativamente  non  gia'
alla «pena» - al singolare - bensi' alle «pene» - al plurale - la cui
comune finalita' e' la rieducazione del condannato. 
    Il principio costituzionale dell'umanizzazione delle pene  e  del
concreto e costante adattamento delle loro modalita'  attuative  alla
finalita' della rieducazione del condannato, favorendo, nella  misura
massima  possibile,  l'applicazione  di   misure   alternative   alla
detenzione per i condannati a pene di breve durata - vivificato dalla
summenzionata  giurisprudenza  della  Corte   europea   dei   diritti
dell'uomo come anche dai piu' recenti interventi riformatori -  trova
dunque un ostacolo invalicabile e, per  quanto  predetto,  del  tutto
irragionevole   ed   eccentrico   rispetto   al   maturato   contesto
ordinamentale, nel dettato dell'art. 656, comma 9, lettera  a),  che,
per tutte le sopra illustrate ragioni, appare incostituzionale  nella
parte in cui prevede che per il reato di cui  all'art.  «624-bis  del
codice penale» non possa essere sospeso l'ordine di esecuzione  della
carcerazione emesso dal P.M.. 
    In forza delle considerazioni sopra esposte, il presente giudizio
deve essere sospeso e i relativi atti  devono  essere  immediatamente
trasmessi alla Corte costituzionale.